Il Secolo XIX
ZUCCHERO CUORE DI VERSILIA
Il 9 agosto show a Viareggio: «Sono posti che mi hanno visto crescere ma troppo glamour per me»
ZUCCHERO, il 9 agosto si esibirà allo Stadio dei Pini di Viareggio: è un ritorno a casa?
«Sì, non ci suono da vent’anni e fu un’occasione storica perché con me c’erano Miles Davis e Joe Cocker. Di quella sera ricordo tutto: l’emozione, perché era un miracolo averli sul palco e io avevo fatto solo due album; poi c’era il pubblico così entusiasta che sforammo oltre la mezzanotte. Scoppiò un battibecco con gli organizzatori del Comune che volevano interrompere il concerto, ma siamo riusciti a finirlo. Mi ricordo Joe Cocker: avevo sempre sognato di lavorare con lui ed era lì, vicino a me. E ricordo Miles Davis che, vedendomi ansioso, mi disse: “Se ti viene l’ansia, guardami e ti passerà tutto”».
Lei con Davis si sentiva più emozionato o più tranquillo?
«A dispetto di quello che dicevano tanti colleghi sul suo brutto carattere, sul fatto che non sorrideva mai e che spesso non salutava neppure, devo dire che con me è sempre stato dolcissimo. Insieme abbiamo inciso “Dune mosse”, abbiamo suonato dal vivo ed è sempre stato molto attento».
Viareggio significa la Versilia, gli anni d’oro di Mina e della Bussola, i primi cantanti soul in Italia. Per lei cos’è stata?
«Ho lasciato l’Emilia a undici anni, venivo dalla campagna. Mio padre era sceso a Forte dei Marmi per aprire un negozietto. Per cui è stato un balzo enorme, quasi uno shock. Ero impressionato da un modo di vivere completamente diverso dal nostro, in un certo senso troppo legato allo sfoggio. In famiglia, invece, avevamo bisogno di guardare la sostanza, altro che apparenza. Così vedere tutto quello sciorinare di belle macchine e belle donne, vestite in abito da sera e comunque sempre molto eleganti, insomma vedere questi uomini un po’ viveur non era, nemmeno da bambino, il mio ambiente».
Come si sentiva?
«Un pesce fuor d’acqua e questa sensazione purtroppo mi è rimasta. Ho vissuto a Forte dei Marmi, lì ho cresciuto le mie figlie e mi sono sposato proprio una ragazza del Forte, ma appena ho potuto me ne sono tornato in Emilia, in campagna, in posti che mi si addicono di più. In Versilia ho ancora gli amici d’infanzia, quelli che ricordi davvero, però non ho mai messo veramente le radici. Musicalmente, invece, sono cresciuto lì, dove ho fondato il primo gruppo. Erano gli anni in cui arrivavano in Italia il soul e il rhythm’n’blues, Wilson Pickett e Ray Charles. L’idea di usare i fiati, la mia passione nera, è nata in Versilia».
Lei non è a suo agio nel glamour, però come si sente quando suona con i divi del rock come a Londra per i 90 anni di Nelson Mandela?
«Mi sento come mi raccontava spesso il povero Pavarotti: ricordati che sei un cittadino del mondo ma non perdere mai il contatto con la tua realtà. Ovviamente, per me è più familiare andare a NewYork o a Londra dove sono stato tante volte a registrare dischi o a scrivere musica, che non in certi lussuosi posti italiani. A Hyde Park, per Mandela, mi sono sentito a casa come lo ero stato a Woodstock o a Città del Capo per un altro concerto contro l’Aids, ma poi torno alle mie radici. Sono lì solo di passaggio. Inoltre le star vengono quasi tutte dalla provincia. Bono vive in un modo semplice, un po’ come me: ha una bella casa sul mare ma senza eccessi. Ci saranno certamente divi che se ne stanno in castelli, ma quelli che conosco preferiscono una vita tranquilla».
Il 27 settembre lei porterà il suo All the Best World Tour alla Carnegie Hall di New York. Si sente emozionato?
«Sì, anche se ci sono già passato un anno fa con l’altro spettacolo, “Fly”, e comunque ci avevo cantato con Sting, Stevie Wonder e Madonna per Rain Forest. Quindi è una sala che conosco ma il prestigio di suonarci da solo, sapendo che c’è passato di tutto e di più, mette sempre un certo brivido. È un po’ come la Royal Albert Hall di Londra: è sempre una prova d’esame».
Alla fine di queste due stagioni avrà dato 220 concerti. Sta scrivendo anche nuove canzoni?
«Una parte di me vorrebbe mettersi al pianoforte o alla chitarra,ma gli impegni che ho sino a dicembre e che mi porteranno in Sud America, Australia e in posti in cui non sono mai stati come l’Armenia o il Kazakistan, mi impongono molta concentrazione. Poi dovrò riposarmi, anche se una volta ho detto che vorrei morire sul palco. Spero che succeda il più tardi possibile».
Perché le piace lo show?
«Perché è una forma sublime di egoismo. È un momento intenso che ti distoglie dai problemi, hai un buon motivo per non pensare a nulla. Poi c’è il rituale di svegliarsi tardi, che per me è una droga. Quando torno a casa, mi sento spaesato. Mi ci vogliono almeno quindici giorni per capire che la vita va in un altro modo. E io, come il buon vino, ho bisogno di decantare altrimenti sembro un matto. Nel lavoro sono preciso, convinto che i dettagli facciano la differenza: vivere di concerti è un meccanismo di precisione, proprio come un orologio. Ma se torni a casa in questo stato, non fai respirare le persone che ti sono vicine».
Cosa canterà in futuro?
«Quello che non mi piace: l’arroganza, la mancanza di solidarietà, l’intolleranza che mi pare un po’ troppo presente. Sì, farò canzoni sociali. Sino a oggi ho cantato l’amore, privato e universale, ma mi sono tolto qualche soddisfazione con “Solo una sana e consapevole libidine” o “L’urlo”. Arrivato alla mia età, 52 anni, dopo aver vissuto non una vita ma un paio, sarò meno individualista: è venuto il momento di dire basta all’egoismo sfrenato. Non sento più amore in un mondo che dovrebbe esserne ricco».
a cura di: Renato Tortarolo
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