Rockstar
TERRA DI LIBERTA'
Tra mulini, campagna e verdure Zucchero ritorna con un nuovo album, Fly. E racconta di dolori e canzoni, Don Camillo e Peppone, Gino Paoli e Bono, Miles Davis e Eric Clapton. E di quando sua nonna portava le uova al prete.
Il vecchio mulino sta nascosto nel verde a due passi da Pontremoli, in Lunigiana, una ventina di chilometri da La Spezia, isolato dal mondo, ma comunque a stretto contatto. Bastano due passi e si è di nuovo in mezzo a quella che continuiamo a chiamare civiltà. E' in questa oasi di pace che Zucchero passa le sue giornate in famiglia, con la presenza discreta della moglie Francesca ed il piccolo Blue, in piena agitazione perchè stanno girando un video ed una parte c'è anche per lui. Adelmo Fornaciari ci riceve con una tavola imbandita di prodotti fatti in casa, dal vino al pane alle verdure, come nelle antiche tradizioni contadine. La sua origine umile trasuda da ogni discorso, i ricordi della sua infanzia, vissuta fra gli anni Cinquanta e Sessanta nell'Emilia che stava diventando uno dei motori dell'Italia del dopoguerra, affiorano come l'inchiostro simpatico non appena la temperatura si scalda. Nonostante la fama e l'agiatezza economica, Zucchero è rimasto un ragazzo semplice, di quelli che alle comodità delle suite presidenziali preferiscono l'odore del grano e quello degli animali. Così sembra quasi un controsenso che, di fronte al (di)vino etichettato Zucchero ed alla pasta ammassata in casa si parli di musica piuttosto che della bontà del raccolto o della prossima vendemmia.
Mi fai pensare a Don Camillo e Peppone...
"Bè, inevitabile. A Roncocesi, in provincia di Reggio Emilia, da una parte c'era la sezione del partito comunista e dall'altra la chiesa, con l'unico organo dove potevo andare a fare un po' di pratica. Sono cresciuto con questo conflitto: ascoltavo contemporaneamente due campane, ma non mi ha mai convinto nessuno dei due fino in fondo, e rimango con questa convinzione. Non sono qualunquista, ho le mie idee, mi sono sempre lasciato attrarre più dalla persona che dal movimento o dall'ideologia".
Non è il sintomo inequivocabile di questo Peronismo di ritorno: la persona convince nonostante le sue idee non convincano?
"Non credo. Secondo te adesso è cambiato qualcosa? Vabbè, lasciamoli governare, ma non vedo cambiamenti sostanziali".
E' una malattia tutta italiana?
"Diciamo che noi come popolo ci mettiamo del nostro, nel senso che siamo un po' bastian contrari, non ci facciamo mai i fatti nostri e stiamo sempre a guardare cosa fa il vicino".
E' per questo che per molti anni in Italia i musicisti si sono ben guardati dal collaborare?
"Io ho avuto la possibilità di collaborare con grandi musicisti , come Paoli, De Gregori, Fossati, Jovanotti, ma sono un'anomalia. Quando si tratta di collaborazioni che non comportano una responsabilità creativa sono tutti disponibili, altrimenti ci sono regolarmente dei problemi che, paradossalmente, creano sempre i mediocri. I grandi artisti se decidono di fare un concerto per Amnesty o un benefit qualunque non si nascondono dietro ai propri manager, lo fanno e basta. Qui forse per insicurezza o provincialismo, c'è sempre un manager o la casa discografica da sentire. Guarda quanti problemi ci sono stati per mettere insieme il cast italiano a Roma per il Live8".
A proposito di grandi concerti, sei stato l'unico italiano chiamato a partecipare al Woodstock del 1994. In Italia è stato un po' snobbato.
"In Italia hanno snobbato anche il concerto per Nelson Mandela fatto a Città del Capo con Bono, i Queen, Annie Lennox. Quando ho fatto la Royal Albert Hall mi avrebbe fatto piacere avere un paio di artisti italiani, oltre Pavarotti. A molti artisti italiani non piace collaborare, eppure lavorare insieme è una grande esperienza, è uno scambio reciproco, se poi la causa è importante io credo che ci dovrebbe essere più solidarietà".
Sei l'artista italiano che ha avuto più collaborazioni, molte delle quali d'eccellenza. E non sono di quelle studiate contrattualmente a tavolino.
"Forse perchè io sono stato disponibile a ricominciare da capo, senza il megashow, in luoghi dove non sono popolare, come nel giro americano delle House of Blues. Se in un posto ho un potenziale di mille persone, vado lo stesso a conquistarle".
La tua musica può essere un fattore aggiuntivo? Le grasi in inglese, gli slogan riconoscibili, un grammelot molto musicale, il soul...
"Forse sì, anche se l'inglese che uso io lo capiscono anche gli italiani. Però sto molto attento al suono, perchè mi ritengo più musicista che autore di testi, e quindi quando riesco ad usare l'italiano va bene, quando non ci arrivo se c'è una parola inglese che ci sta bene ce la metto".
La tua comunicazione avviene attraverso il suono.
"Penso di sì. All'inizio della mia carriera non avevo mai scritto testi, mi avevano affidato a Mogol, ma la cosa non ha funzionato. Lui non era disponibile a collaborare a quattro mani, anche sul testo. A volte i parolieri sono troppo rigidi".
E ancora più gelosi dei musicisti...
"Direi di sì. Ho trovato invece una grossa disponibilità con Gino Paoli, insieme abbiamo fatto delle belle cose. Questi non ti mandano dei testi rigidi, neanche Bono fa così. Ho scritto tre brani nella sua casa di Dublino. Di "Blue", ad esempio, lui mi ha fatto tre versioni, e mi ha detto che avrebbe cambiato le cose che non mi piacevano. Quello che io canto deve starmi bene in gola".
Perchè i rockers parlano quasi sempre d'amore, ed i cantautori invece vanno più sul sociale?
"Non mi ritengo un cantautore classico, quello che racconta la cronaca. Quando ci sono le guerre, ad esempio, ne parlano tutti, televisioni, radio, giornali, c'è già molta angoscia, io penso invece che il mio compito sia quello di dire le cose e farle vivere con un po' di ironia, di leggerezza, non tirare alla gente un'altra mattonata. Certe volte ho punzecchiato anch'io, come ai tempi di "Una Sana E Consapevole Libidine". Però non mi sono mai voluto soffermare più di tanto. L'ho fatto in questo disco su due cose che mi hanno particolarmente colpito, una è "New Orleans (Let It Shine)", perché è come se mi avessero tolto le radici. Andavo sempre a suonare in uno studio che adesso non esiste più. E poi in "Pronto" parlo di questo mal di vivere generalizzato, della disarmonia che c'è fra le persone. Non trovo più solidarietà. Per il resto è vero che parlo d'amore, ma bisogna vedere come uno ne parla, lo faceva anche De Andrè".
Qualcuno sostiene che tutti gli artisti producono le loro cose migliori nei momenti di grande dolore. E' successo anche a te?
"Il dolore genera cose importanti. Il periodo di Miserere è uno di quelli dolorosi, eppure ho fatto l'album e ho partecipato al Pavarotti & Friends. Questo crossover fra musica pop e romanza è stato sicuramente positivo. Ma penso che il mio miglior momento sia stato quello di Blue's e di Oro Incenso & Birra, alla fine degli anni Ottanta. Anche il 1995 è stato un buon momento creativo, ho pubblicato Spirito DiVino. Non riesco ad essere costante, però sento di avere ancora della creatività, anche se dopo tredici album una pausa sarebbe fisiologica".
In quel periodo facesti un gran bel tour, ricordo un bellissimo concerto a L'Aquila...
"Con L'Aquila ho un bel rapporto ed un ricordo commovente. Un ragazzo che stava venendo al mio concerto ebbe un incidente ed entrò in coma. I genitori vennero in camerino pregandomi di andare all'ospedale a cantare per lui. I medici dissero che non c'era nulla da fare, ma sono andato lo stesso, gli ho parlato e tenuto la mano. Dopo qualche anno me è arrivata una lettera in cui lui mi ringraziava per quello che avevo fatto. Stava benissimo".
Con la religione hai sempre un rapporto di amore e odio?
"Sì, vivo sempre tra sacro e profano, tra diavolo e acquasanta, credo proprio perchè sono cresciuto fra la chiesa e l'osteria. Lì a Roncocesi non si davano i nome dei santi ai bambini. Mio nonno si chiamava Guerra, mia nonna Diamante. Anche a me, appena hanno potuto, mi hanno appiccicato addosso Zucchero, San Zucchero non esiste".
Era comunque un rapporto sano...
"Sì, mia nonna portava le uova al prete. C'era un legame umano che andava al dì là dell'ideologia".
Avresti mai pensato che dopo quarant'anni le religioni avrebbero creato tutti questi problemi?
"No, non essendo credente non riesco a comprendere questo modo manicheo di interpretare la fede. Credo la religione sia un posto in cui molti hanno bisogno di rifugiarsi. Ma non si sa mai. Anche mio padre quando stava male ha fatto entrare il prete e si è fatto il segno della Croce".
Una volta hai detto che avresti voluto fare una carriera come Van Morrison.
"Sì, perché lui si tiene fuori dal sistema. Anche Clapton è un po' così".
Qual è l'artista che ti ha lasciato il segno più profondo?
"Miles Davis. Mi ha lasciato il segno della sua grandezza. Ogni volta che sento la sua versione di "Dune Mosse" mi vengono i brividi. Quello che mi ha colpito è che dietro quella maschera così dura c'era una grande dolcezza. Anche Clapton è una persona straordinaria, come Brian May, Bono, lo stesso Pavarotti, che una volta mi ha detto che era meglio la mia versione di "Va' Pensiero" che quella fanfarata di Verdi".
In questo nuovo album hai recuperato parecchi session-man californiani, Danny Kotchmar, Jim Keltner. Waddy Watchel...
"Fly è un disco da quartetto, basso, batteria e due chitarre. Mi sono affidato a Don Was (produttore americano, già al lavoro con Bob Dylan, Rolling Stones e Iggy Pop, nda) che è bravo a far suonare ruvidi i dischi, e lui lavora con quei musicisti".
A me è semprato troppo pulito.
"Ascoltalo bene in cuffia, si sentono perfino i ronzii della chitarra. Io lo trovo moderno, avevo paura che suonasse datato. Il fatto di aver messo insieme grandi vecchi e grandi giovani ha aiutato in questo senso".
Perchè hai fattu un album senza una band consolidata?
"E' una delle peculiarità di Don Was: cambia musicisti ad ogni pezzo".
Non è un segno di discontinuità?
"No, perchè io ho sempre in mente "the big picture", la fotografia finale. E' vero, c'è gente che suona in modo diverso, ma io li ho messi insieme".
E il sesso? Sta sempre lì, "il pushing pushing" (in "Bacco Perbacco"), "mi piace la lasagna" (in "Cuba Libre")...
"Ma no, ormai è un luogo comune, sempre al lupo al lupo. Il pusching può essere anche un buon aperitivo, una cosa che ti tira su..."
In che direzione va questo album?
"All'inizio mi sono posto la stessa domanda. Allora stavo ascoltando l'ultimo dei Coldplay ed ho sentito questi organi distorti, che mi ricordavano i Procol Harum, che mi piacciono molto. Volevo fare comunque un album che desse la sensazione di canzoni scritte sotto un albero con la chitarra, senza troppe sovrastrutture. C'è anche qualche citazione psichedelica, un genere musicale che mi ha sempre coinvolto".
Il risultato complessivo è quello che avevi in mente all'inizio?
"Sì, sono riuscito a mantenere il disegno iniziale, anche perchè dopo un anno di lavoro qualcosa può che cambiare".
Tour?
"Devo fare audizioni per la band e poi a febbraio parte il tour, per un anno in giro per il mondo, a marzo in Italia".
di Maurizio Iorio
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