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IO E SOLOMON
The bishop, ovvero il vescovo della musica che non pratica la castità, quella volta scacciò il diavolo dal palco…
Amici, siamo alla fine di questi racconti che spero non abbiano impoverito il vostro tempo, ma vi abbiano arricchito di qualche informazione, soì come hanno arricchito me di belle sensazioni e profonde emozioni.
Una vita è piena quando si riempie di incontri e persone, ricordi e canzoni. Io ho avuto la fortuna di attraversare la strada e incontrare tanti fratelli. Con molti di loro ho conosciuto una fortuna ancora più grande: l’amicizia. Perché, a volte, una canzone va, ma l’umanità di una persona resta.
Mi rimane da raccontarvi di Solomon Burke, un grande. Un grande era anche l’uomo che per primo mi parlò di lui: Rufus Thomas, il padre del Memphis Blues, la persona che aveva tenuto a battesimo tanti futuri eroi della musica soul. È grazie a lui che comincia la mia storia con Solomon. È l’epoca di Oro, Incenso & Birra. Siamo a Memphis, al Peabody Hotel. Vi ricordate? È l’albergo dove le papere prendono ogni giorno l’ascensore e fanno il bagno nella fontana della hall. Lì Rufus mi parla di questo strano personaggio che diceva di essere vescovo, ma che aveva quindici figli, secondo alcuni addirittura venti. Sparsi per il mondo, come B.B. King. Dopo ogni tour ne nasceva uno. Lui diceva: “God bless them”, Dio benedica i bambini, e li riconosceva. Tutti. Un mito. Una volta si narra abbia detto: “Ho cominciato a leggere la Bibbia aprendo a caso al versetto che diceva: crescete e moltiplicatevi; mi sono fermato lì”. Ma questa credo sia leggenda. Rufus organizza un incontro. Solomon mi si avvicina con la sua enorme stazza, mi dà la mano e dice: “I’m the king of soul”. A me vengono in mente John Belushi e Dan Aykroyd quando cantano “Everybody Needs Somebody”, nel film Blues Brothers. Scocca la scintilla di energia e positività. Ci piacciamo.
Secondo incontro a Pistoia, al Bluesin’, in quella straordinaria edizione con Stenie Winwood, Solomon e i Blues Brothers con Eddie Floyd. Mi viene l’idea di fare “Diavolo In Me” con Solomon a cantare e i Blues Brothers a suonare. Prima, però, c’è tempo per “Everybody Needs Somebody”. Solomon sale sul palco con mantello rosso porpora e corona in testa. Alla fine dell’esibizione si toglie la corona e mi nomina “Prince of Soul, non Re, perché di Re cd n’è uno solo e sono io”.
Ci salutiamo con la promessa di ritrovarci presto. Il tempo passa, ogni tanto ricevo sue notizie attraverso il suo manager italiano Tonino Evangelisti. Vengo a sapere che ha fatto un tour da spalla agli Stones in America. Eric Clapton mi regala il nuono disco di Solomon, Don’t Give Up On Me, che trovo bellissimo. E allora mi decido. Chiamo.
Dopo i saluti, dico: “Solomon, posso chiederti una cosa?”.
E lui: “Whatever you want”.
Esulto, poi mi abbatto, Solomon mi dice che non può incidere su disco una canzone che si intitola “Diavolo In Me”; “Sono un vescovo, non ho il diavolo in me”.
Non so come fare. Mi viene in aiuto: “Posso cambiare un po’ di parole?”, chiede.
Rispondo: “Certo, basta che non rinneghi lo spirito e l’ironia”.
E lui aggiunge e aggiunge e aggiunge. Aggiunge più parole di quanto sia lecito inserire nella metrica, “Ne ho bisogno, Zucchero, perché sono io che chiedo al diavolo di uscire. Lui mi corteggia, mi seduce, mi fa cadere a terra, ma io non posso cadere. È lui che deve uscire. Sono io a vincere, ma prima devo convincerlo a parole”.
Rodiamo per bene la nuova versione a Los Angeles e poi al Nice Jazz Festival di Nizza, quando, a sorpresa, arriva da Antibes. Infine, la Royal Albert Hall, a Londra.
Rispetto alla prima volta che ci siamo incontrati, è ingrassato ancora di più e non cammina. Si muove sulla sedia a rotelle, ma quando è sul palco, madonna mia: ha davvero il diavolo in lui, anche se poi, a parole e con il sudore, lo convince a uscire.
Ecco, questa era l’ultima storia. Vi saluto e mi auguro di ritrovarvi presto da qualche parte. Nel mentre ricordatevi che il blues non morirà mai perché in blues we trust.
Tratto da: ZUCCHERO WHO? di Adelmo Fornaciari
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