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01-06-2004 --> Return to articles
Rockstar

IO E MILES
Uno rinuncia alla moglie per la musica, l'altro si rivela un geniale figlio di buona donna: cronaca di un incontro in bianco e nero fra due uomini di poche parole e molte note

La mia storia con Miles nasce quando muore il mio matrimonio.
Il giorno in cui mi sono separato da mia moglie, appena usciti dal tribunale, andiamo a bere qualcosa. Tristi entrambi, io di più. Mi dice: “Andiamo in vacanza. Ce lo siamo meritati”. “In vacanza?”, le chiedo di ripetere. Avevo paura di non aver capito bene. “Sì, andiamo via qualche giorno. Ce lo siamo meritati, no?”. “Ma come ce lo siamo meritati? Per anni, da sposati, ti ho chiesto di andare insieme da qualche parte e tu sempre a dire no, che eri impegnata, avevi mille paure e mille problemi”. “Ho cambiato idea”. Insisto: “Vuoi andare con le bambine, per rendere meno traumatica la separazione?”. “No, da soli. Ce lo siamo meritati”. Ci credo, ci voglio credere. Sono felice. Intravedo le possibilità di un recupero. Sono ancora molto innamorato di lei. Tre ore dopo ho già i biglietti. Partiamo per le Maldive.
Cerco di fare lo splendido, di essere il miglior ex-marito possibile. Le spalmo la crema, le porto la colazione, facciamo il bagno felici come non eravamo più da tempo. Dormiamo nello stesso letto, nudi. Sono in pieno delirio ormonale. E lei: “Non vorrai mica avvicinarti? Siamo separati”. Le donne hanno dinamiche che non riuscirò mai a capire. Appena mi avvicino con il cazzo a cravatta, perché mi eccita da morire, lei mi respinge. Una tortura.
Quattro di mattina. Arriva una telefonata di Michele Torpedine, il mio ex-manager: “Zucchero, sai costa sta succedendo? Miles Davis è in questi giorni in tour in Italia, portato da Mimmo D’Alessandro. Mentre erano in macchina insieme, ha sentito “Dune Mosse” e ha chiesto chi cantava. Mimmo ha risposto: “Zucchero”. E Miles: “Zucchero who?”. Classico. “Insomma, per farla breve, vuole suonare con te”. È il periodo in cui Miles è affascinato dalla contaminazione fra musica nera e sapori mediterranei. Fantastico. Chiedo che giorno. E Torpedine: “Il primo aprile”. Ah, beh. Ho capito tutto. Michele era solito farmi questi scherzi. Lo saluto e gli dico di lasciarmi in pace: ero impegnato col cazzo a cravatta.
Mi richiama il giorno dopo: “Guarda che non stavo scherzando. Miles ti aspetta a New York”. Sono combattuto fra la musica e mia moglie. Alla fine vado da Miles e mi gioco ogni residua possibilità di recupero. Arrivo a New York. Torpedine e D’Alessandro mi suggeriscono di andare a riposarmi in albergo. La registrazione è prevista per le nove di sera. Mi chiamano dopo mezz’ora: “Ce l’hai tu il nastro vero?”. “No che non ce l’ho”. “Forse l’abbiamo lasciato in taxi”. Io svengo. Ostentano tranquillità: “Non ti preoccupare, dormi tranquillo. Lo troviamo noi”. Vanno alla polizia, che naturalmente si mette a ridere: “Noi ci occupiamo solo di omicidi”. Tentano con un investigatore privato. Mimmo si ricorda solo il nome del tassista: Nikolas, un greco. L’investigatore scuote la testa: “A New York ci sono duemila società di taxi”. Si mette comunque a cercare e, incredibile a dirsi, ce la fa. Alle otto e mezzo rintracciano la moglie di Nikolas. “Si, mio marito ha lasciato a casa una cassetta con dei nomi e dei numeri”. Era la label copy. Alle nove e mezzo siamo in studio. Miles, per fortuna, arriva in ritardo, alle dieci. Sono nella sala grande, a suonare il piano, quando entra. Vestito di pelle nera. Non saluta nemmeno. Mi sente suonare e mi ferma subito: “You’re playing in the wrong key”. Lo saluto: “Hi, Miles”. Mi ripete che sto suonando nella tonalità sbagliata. Non capisco. L’avevo scritta in SI minore. Miles s’impunta: “Non è vero. L’hai scritta in SI bemolle minore”. Gelo. Io penso: “Ma se l’ho scritta io, come faccio a sbagliarmi?”. “What the fuck are you playing?”. Sudo freddo. Mi viene un dubbio: “Miles, non è che hai ascoltato un nastro su un registratore con le pile scariche e, a velocità rallentata, hai sentito una tonalità più bassa?”. Miles riflette: “Può essere”. Respiro di sollievo. Capisco dopo che Miles è un figlio di buona donna. Siccome per la tromba è più facile suonare in SI bemolle perché ha meno diesis in chiave, aveva finto di essersi sbagliato.
Faccio per andare in regia e godermelo bene, quando mi blocca: “Where the fuck are you going? I need you here”. Cazzo, che carattere. Mi dice che ha bisogno della mia energia e delle giuste vibrazioni. Ogni venti secondi smette di suonare e dice: “Fuck! Shit!”. Poi, all’improvviso mi pianta due dita in gola. Sto per cagarmi addosso, quando mi dice: “I love your voice, I love your song”. Capisco che è un altro matto, come ne ho incontrati tanti. Si alza spesso, cambia giubbotto, prende una tromba di un altro colore, ma alla fine entriamo nel giusto mood. Dopo un’ora mi domanda: “Sei felice?”. Cazzo se sono felice: ha registrato sei versioni. “Quale preferisci?”, domando. “Forse l’ultima, perché è più sospesa in aria. Tieni quella che vuoi, basta che non tieni le note sbagliate, anche se il mio amico Gil Evans sosteneva che nel jazz e nel blues non esistono note sbagliate”. Miles mi dice che inserirebbe uno snare, un rullante nel battere. “Senti come la farei io”. Ta-pum-pum ta-pum-pum ta-pum-pum. “Ho capito” gli dico. Miles mi guarda: “No, non hai capito”. Ta-pum-pum ta-pum-pum ta-pum-pum. “Ho capito”. “No, non hai capito”. Penso: ma come cazzo fa a dire che non ho capito?. “Ascolta, Miles. Guarda che ho capito”. E faccio, con la bocca: Ta-pum… Mi parte uno sputo formidabile che lo colpisce in piena faccia. Mi manda a cagare. Sta zitto per un po’, poi dice: “Portami a mangiare in un ristorante italiano”. Benissimo. Prenotiamo. Lo raggiungo sulla limousine. Il suo autista, un nerone pazzesco, mi apre la portiera. Entro e non mi accorgo che mi sono seduto su Miles. Era notte, la limo era nera, Miles era nero. Non ho visto un cazzo. Mi rimanda a cagare.
Al ristorante, si scioglie. Si toglie gli occhiali e la corazza. Ha occhi verdi scuri e bellissimi. Mangia come un uccellino. Mi chiede di organizzare un tour con lui, che poi abbiamo fatto. Una sera, mentre attendo il suo arrivo da Madrid – dovevamo suonare insieme in un Fantastico – mi dicono che si è sentito male e che era in viaggio verso New York. Sarebbe morto di lì a poco.

Tratto da: ZUCCHERO WHO? di Adelmo Fornaciari