Secolo XIX - 27 Gennaio 2002

IL NUOVO TOUR EUROPEO

«Fabrizio è molto personale e si rischia un po’. Ma “Ho visto Nina volare” mi è cresciuta nel cuore ed è per questo che la farò a Genova»

«A Genova canterò “Ho visto Nina volare” di Fabrizio De André. Promesso». La chiama Lunisiana Soul. Se l’è inventata per devozione: la Lunigiana delle origini, dove ha casa, e la Louisiana del cuore, dove nasce il blues. Una terra di mezzo, la Lunisiana, con cerri, querce, faggi e i castagni che danno i “marroni” di Bagnone. Zucchero, alias Adelmo Fornaciari, alias Sugar, come lo saluta Lucio Dalla nella prima puntata della sua “Bella e la Besthia”. Zucchero che prova il “Shake World Tour” in partenza l’11 febbraio dall’Hallenstadion di Zurigo, e che il 5 marzo sarà al Palasport di Genova.
E qui, nella Lunisiana, Zucchero racconta un’altra avventura dell’emozione: l’8 febbraio uscirà il singolo “Dindondio” dal suo ultimo album “Shake”, un milione di copie vendute, con una “bonus-track” d’eccezione, quella “Ho visto Nina volare” di Fabrizio De André e Ivano Fossati, che Zucchero cantò al Carlo Felice il 12 marzo 2000 nello show “Faber amico fragile”. «Le canzoni hanno bisogno di tempo per venire fuori - spiega Zucchero - ogni volta che l’ascoltavo, mi entusiasmava. E lo stesso era per Dori Ghezzi. Perché, dunque, lasciarla lì, nel cassetto?».

Interpretare De André non dev’essere facile...
«Per nulla e si rischia molto: Fabrizio è molto personale. Melodicamente è legato a schemi diversi dai miei, e le sue parole sono un gran peso da sopportare. Forse non ha bisogno di grandi cantanti, ma sicuramente d’interpreti».

E fare Zucchero è difficile?
«Non me lo sono mai chiesto, e mi piacerebbe sentire alcune mie canzoni fatte da un altro. Un tempo, quando scrivevo per altri interpreti, mi piaceva di più la mia versione, e non lo dico per megalomania ».

A proposito, e il nuovo tour mondiale?
«È sempre un esame, però questa volta sono più eccitato del solito. Ho proprio voglia di partire. Dopo l’ultima tournée durata più di un anno, il mio fisico si era abituato. Suonare dopo ore di volo, da Buenos Aires e San Paolo, era come aver fatto Pisa-Napoli. L’adrenalina galoppava».

E com’è finita?
«Che finito il tour me ne sono stato un mese in albergo da solo, a un’ora da casa, per non dare un taglio netto e finire in depressione. Poi mi sono abituato alla vita in famiglia, ho fatto il nuovo album, ma adesso è ora di togliere le tende. Del resto, sono per strada da quando avevo 13 anni».

Non ha mai smesso, vedo.
«Questa volta, musicalmente ho un bel motore. E poi parto sotto un influsso positivo: i concerto di Zurigo, Monaco, Bruxelles e Amsterdam sono esauriti».



Quando conta il blues?
«Rimane la musica che amo di più, e il soul oggi ha star come Macy Gray e Mary J Blige. Insomma, la musica nera me la porto dentro ma, girando il mondo, vedo che non mi trattano più come il “cantante italiano” o il “nero bianco” o il “blues italiano”. Grazie a Dio dicono solo Zucchero».


Non è sempre andata così, giusto?
«Infatti, gli stranieri sono abituato bel canto, bella melodia, voci pulite. Così all’inizio erano tutti un po’ straniti: è italiano, ma cosa vuole fare, l’americano?».

Lei però è finito a cantare a Woodstock e Wembley.
«Non vorrei essere presuntuoso, ma in 15 anni mi sembra di aver vissuto tre vite. Ne ho fatte di cose, vero? Il tributo a Freddie Mercury, il tour con Eric Clapton, l’incontro con Miles Davis, Sting, Bono e l’ultimo con John Lee Hooker, che non dimenticherò mai».

E come ci è arrivato?
«Per coraggio, credo. Alla fine gli anni ’80, gli impresari si facevano chiamare manager, ma erano solo interessati a prendere i cantanti al Festival di Sanremo e riciclarli nelle feste politiche o di piazza. Io invece pensavo che si poteva andare all’estero, e dare lustro al nostro paese». Si sente un po’ ambasciatore? «No, per carità, al massimo un pioniere che è ancora lì col suo bagaglio di muli e pignatte. Continuo a girare, e mi trattano bene: la settimana scorsa mi hanno invitato in Inghilterra alla trasmissione “This is Your Life”. Mi hanno presentato come “the italian mad hatman”, il cappellaio matto italiano, e c’erano tutti i miei amici rockstar». Poi torna in Italia, e canta De André. «Le mie radici sono quelle che hanno conquistato anche Dori quando mi ha consigliato di fare “Ho visto Nina volare”. Fabrizio ci teneva molto: gli ricordava il periodo della sua infanzia nell’astigiano. Anche io sono attaccato a quell’atmosfera, tant’è che vivo in una fattoria». Come si concilia il moderno alle radici? «Occorre una mente aperta a 360°, come quella di Pavarotti che torna sempre a Modena. Fabrizio diceva che “in ogni blasfemo c’è un giardino fiorito”. Basta conservarlo, e aggiusti la modernità con le radici. Non parlo solo di me, ma di Vasco, De Gregori o Guccini: siamo una cosa sola con la terra». Però in Liguria stanno distruggendo le “creuze”, cementano il selciato per arrivare davanti a casa con l’auto. «Lo so, ed è vergognoso. Mi hanno detto che succede anche alle Cinque Terre. Ecco, questo non è l’esempio di convivenza fra modernità e tradizione. È solo uno scempio.


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